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Vaccino Pfizer

Nel pieno della seconda ondata di Coronavirus arriva una buona notizia: il vaccino della Pfizer. Nella corsa all’ora di questi mesi sembra essere lui il primo a tagliare il traguardo ma c’è da chiedersi quanto sia efficace e come valutarlo rispetto ala concorrenza. Il paese è in ginocchio e una soluzione come questa sarebbe una manna dal cielo (oltre che un guadagno portentoso per l’azienda). Ma ogni medaglia ha il suo rovescio per cui è bene guardarla a fondo prima di… cantare vittoria.

Entra più nel vivo del vaccino della Pfizer Antonio Clavenna, Responsabile dell’Unità di Farmacoepidemiologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano in quest’intervista dell’Huffington Post che riportiamo per tenere sempre informati i nostri soci.

Dottor Clavenna, il vaccino Pfizer-Biontech, attualmente in fase 3, si sta dimostrando efficace al 90% 7 giorni dopo la seconda dose, secondo quanto annunciato dalle due società. Cosa vuol dire in concreto? Siamo vicini a una svolta?

“Al momento è difficile dire cosa vuol dire, perché abbiamo solo questi dati derivanti da un comunicato stampa e nessun dato pubblicato. L’efficacia, inoltre, è stata misurata una settimana dopo la seconda dose, per cui non sappiamo quanto potrebbe durare a distanza. Sono dei dati che appaiono promettenti, ma abbiamo bisogno di maggiori informazioni e di più tempo per avere un’idea della possibile efficacia sul campo al di là della sperimentazione. Certamente il 90% appare come un’efficacia molto alta, difficile sperare in un’efficacia maggiore, con la cautela imposta dal fatto che, quando il campione di persone che si sono ammalate è così piccolo, la stima dell’efficacia può essere soggetta a un’incertezza maggiore. Questa percentuale potrebbe facilmente variare nel momento in cui si accumuleranno più dati”.

Pensa che ci sia stato un clamore eccessivo attorno all’annuncio di Pfizer?

“Direi di sì. Purtroppo per molte presunte scoperte o annunci fatti dalle aziende spesso c’è un clamore mediatico eccessivo. In questo caso, poi, si è in spasmodica attesa di buone notizie. Occorre tenere presente che la ricerca scientifica invece richiede tempo, pazienza e un’attenzione a quelli che sono i dati prodotti. Soprattutto quando i dati sono preliminari e ancora non pubblicati, bisogna essere molto cauti e attenti”.

Attualmente nel mondo 11 vaccini sono in fase 3. Il vaccino della Pfizer, insieme a quelli di Curevac e Moderna – si basano sulla tecnologia a Rna. Abbiamo motivi per ritenere che Pfizer sia più avanti rispetto agli altri?

“Anche qui è difficile saperlo, perché in realtà sia il vaccino Pfizer sia quello di Moderna hanno iniziato la fase 3 della sperimentazione più o meno nello stesso periodo, cioè verso la fine di luglio. Sappiamo che per Pfizer c’è stata questa analisi preliminare dei dati che ha osservato questa efficacia promettente; non sappiamo a che punto è la sperimentazione del vaccino di Moderna. È possibile che anche loro siano in una fase molto avanzata; non è da escludersi che per entrambi i vaccini possa esserci una richiesta alle autorità regolatorie quasi contemporanea”.

Questo tipo di vaccino potrebbe essere il primo basato su Rna a essere autorizzato in assoluto, è corretto?

“Sì, sarebbe una novità assoluta. È da qualche anno che si sta tentando e sperimentando questo tipo di approccio, ma per il momento non ci sono vaccini che sono arrivati alla valutazione delle agenzie del farmaco che utilizzino questa strategia”.

I vaccini basati sull’Rna sono considerati più promettenti per l’inoculazione di massa Perché?

“Utilizzando del materiale genetico del virus, lo sviluppo e la produzione di questo tipo di vaccino possono correre più velocemente. Questi sono certamente dei vantaggi. Lo svantaggio principale, che potrà comportare dei problemi logistici per la vaccinazione, è che questi vaccini devono essere conservati a -80° per mantenere l’integrità del materiale genetico dell’Rna messaggero. Anche altri vaccini hanno la necessità di mantenere la catena del freddo, ma a livelli meno estremi, ‘da frigorifero’ per intenderci, equiparabili ad altri vaccini che sono già in commercio. Si tratta di un problema logistico che va programmato per tempo e richiederà investimenti”.

A giugno il governo italiano ha firmato un contratto con Astrazeneca per il vaccino che la casa farmaceutica sta sviluppando insieme ai ricercatori di Oxford, con la collaborazione della Irbm di Pomezia. Nel corso dei mesi sono stati siglati altri accordi. Ci stiamo incamminando verso uno scenario in cui avremmo due o più vaccini? Quali sono i vantaggi di questa pluralità? Ci sono anche dei rischi?

“È molto probabile che si arriverà a questa situazione, forse anche con più di due vaccini. Da un lato, infatti, c’è il problema di differenziare la tipologia di vaccino rispetto ai dati che emergono man mano. Dall’altro c’è il problema della produzione, che già vediamo con l’anti-infuenzale in particolare quest’anno: le aziende non sono in grado di produrre quantità enormi in poco tempo, per cui si finisce con il far ricorso a diverse case farmaceutiche. Se vogliamo avere una quantità di dosi per vaccinare una certa fascia di popolazione, è possibile che bisognerà fare contratti con una pluralità di aziende. Ci può essere un vantaggio: è possibile – lo vedremo quando ci saranno i dati pubblicati – che un vaccino sia più efficace o meglio tollerato in una determinata fascia di popolazione (poniamo: gli adulti sani), mentre un altro funzioni meglio su un’altra fascia (ad esempio gli anziani). Probabilmente avremo vaccini più adatti per vaccinare gli anziani e altri più efficaci sulla popolazione adulta: poter scegliere sarà un vantaggio. Il rischio di firmare contratti per vaccini che poi possono rivelarsi meno efficaci di altri è concreto, ma ineliminabile: bisognerà aggiustare il tiro strada facendo, dopo la prova sul campo, ma questo è un problema che riguarda tutti i Paesi, non solo l’Italia”.

Per quanto riguarda la somministrazione, l’idea più accreditata è di iniziare dalle fasce più esposte e più fragili. Non si parla quasi mai di bambini, se non per la raccomandazione di sottoporli al vaccino antinfluenzale, quest’anno più che mai. È prematuro o sconsiderato pensare a un vaccino anti-Covid anche per loro? Se sì, perché?

“Il problema grosso è che gli studi al momento riguardano quasi esclusivamente la popolazione adulta; alcune indagini si concentrano sugli anziani, ma i dati sono meno numerosi. Rispetto al vaccino di Pfizer dovrebbe partire uno studio che riguarda gli adolescenti (dai 12 anni in su), ma nessuna indagine per ora riguarda la popolazione pediatrica. Questo significa che, se per la popolazione adulta-anziana serviranno dei mesi prima di avere una vaccinazione estesa, per i bambini bisognerà attendere ancora di più. Di per sé sarebbe importante, perché anche il proteggere i bambini e gli adolescenti può essere un modo per ridurre ancora di più la circolazione del virus. Ma prima di poterlo fare bisogna avere degli studi e dei dati solidi”.

Negli ultimi giorni si è parlato molto del caso visoni in Danimarca, dove numerosi allevamenti sono risultati infetti da una variante del virus che ha cominciato a passare agli esseri umani. Le autorità hanno ordinato la soppressione di 17 milioni di animali, ma l’allarme rimane. Cosa comporta questa possibilità di mutazione per i nostri sforzi di contrastare la pandemia tramite lo sviluppo di vaccini?

“Potenzialmente il fatto che si sia un ceppo che contiene delle mutazioni potrebbe ridurre l’efficacia del vaccino. Accanto al rischio potenziale, c’è il rischio concreto di avere più ceppi circolanti che potrebbero rendere più difficoltoso il controllo dell’epidemia. Al momento non sembra che questo ceppo abbia un’aggressività maggiore rispetto agli altri, però assolutamente occorre evitare che ci sia questa possibilità di avere mutazioni dovute a un continuo passaggio di specie animale-uomo, uomo-animale. Il caso dei visoni è emblematico perché sottolinea sempre di più come, se vogliamo evitare il ripetersi di pandemie e situazioni analoghe a quella che stiamo vivendo, dobbiamo trovare il modo di ripensare il nostro rapporto con l’ambiente e gli animali. Gli allevamenti intensivi – lo abbiamo visto anche con altre malattie – sono indubbiamente una potenziale bomba a orologeria. Nel 2009 l’influenza H1N1, la suina, era partita proprio da un allevamento di maiali in Messico. Occorre fare di tutto per evitare che ci siano situazioni di questo tipo dove è facilitata l’emergenza di virus che poi possono creare epidemie nell’uomo”.

Perché gli allevamenti intensivi sono bombe a orologeria? Cosa può scattare in quei contesti?

“Vale la stessa regola degli assembramenti umani, che creano un particolare rischio di trasmissione e circolazione del virus. Negli allevamenti intensivi questa dinamica è portata all’estremo: avere un gran numero di animali in spazi limitati, molto vicini tra loro, fa sì che se c’è un’infezione possa dilagare. Più un virus si trasmette e più si replica, più è probabile che con un processo casuale nella replicazione si formino degli errori che poi portano a delle mutazioni. Evitare delle situazioni in cui ci sia una circolazione molto rapida di virus tra gli animali vuol dire anche abbattere il rischio di mutazioni capaci di consentire al virus di passare da animale a uomo. Detto più semplicemente, ridurre il rischio infettivo negli animali è importante anche per proteggere noi stessi”.

Si inizia a parlare molto anche della sfida logistica che accompagnerà l’arrivo del vaccino, dal trasporto alla somministrazione, con in mezzo i nodi della distribuzione e della conservazione. Sarà un’impresa titanica vaccinare (quasi) un intero Paese? Quali sono, secondo lei, le priorità per farsi trovare pronti e non sommersi dalla complessità?

“La cosa fondamentale è programmare per tempo: bisogna già pensare adesso quali sono le strutture di cui abbiamo bisogno, come realizzarle, qual è l’infrastruttura logistica che sarà necessaria, indipendentemente dal tipo di vaccino. Certo, se sarà un prodotto a Rna avremo bisogno di alcune infrastrutture che per altri tipi di vaccino non servono, ma dobbiamo muoverci su più livelli”.

Che cosa intende?

“Accanto alla logistica, un’altra necessità che va affrontata subito è quella di decidere come procedere per la vaccinazione. C’è accordo nel dire che le fasce ‘a rischio’ dovrebbero essere le prime, ma bisogna iniziare a capire cosa intendiamo. Intuitivamente, come buon senso, si potrebbe dire che i primi a essere vaccinati dovrebbero essere gli anziani che hanno più patologie. Però non è detto che nel momento in cui arrivino i vaccini saranno disponibili dati abbastanza robusti su questa fascia d’età: magari avremo dei dati che riguardano la popolazione tutto sommato sana (gli adulti senza particolari malattie) e non è detto che questi dati siano automaticamente trasferibili alla popolazione più vulnerabile. Bisognerebbe già adesso prevedere quali possono essere i passi in base ai diversi scenari che potremo trovarci di fronte. Altro esempio: tutti concordano nel dire che le fasce più esposte o più essenziali (medici, infermieri, operatori socio sanitari, forze dell’ordine, etc) dovrebbero essere vaccinate prima, ma anche in questo caso dovrebbe esserci una strategia. Visto che all’inizio le dosi saranno poche, chi vacciniamo prima, il personale ospedaliero o i medici di base? Per quanto riguarda la distribuzione regionale delle prime dosi: è meglio adottare un criterio uniforme o dare la priorità alle Regioni dove la circolazione del virus è più alta? Sono tutte scelte che, almeno in termini di strategia generale, andrebbero definite fin da ora”.

Considerando come siamo stati travolti dall’emergenza e come ci siamo fatti trovare impreparati alla seconda ondata, lei ha fiducia nel fatto il nostro Paese riuscirà a superare la sfida del vaccino?

“Ho fiducia sulle nostre capacità di farlo, ma occorre muoversi per tempo, coordinandosi tra i vari livelli. Un altro dei nodi è chi gestirà tutto: la gestione sarà regionale, come per altre vaccinazioni, oppure si pensa a una gestione coordinata dal ministero della Salute? Ci sono dei passaggi da fare. Siamo di fronte a una sfida complessa che però riguarda anche altri Paesi: è auspicabile che ci sia una condivisione di strategie, quanto meno a livello europeo, per capire come è meglio muoversi. Bisogna essere lucidi, organizzati e flessibili. Gli slogan non servono a nulla, è il tempo di prendere decisioni e delineare strategie capaci di adattarsi a uno scenario in continuo mutamento”

 

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