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Chi sta in terapia intensiva

Con tutto quello che sta succedendo nel mondo in queste settimane, il Covid sta passando un po’ in seconda linea ma questo non significa che la pandemia stia alle spalle. Anzi. I numeri dei contagi in Italia sono ancora alti e le morti registrate continuano ad esserci. Allora conviene tenere alta la guardia e la soglia di attenzione sulle informazioni necessarie a capire. In questo vi aiutiamo noi che vi spieghiamo in quest’articolo chi sta in terapia intensiva.

Chi sta in terapia intensiva

I pazienti in terapia intensiva non sono solo quelli che hanno rifiutato l’immunizzazione e quelli che hanno altre patologie, in rianimazione ma sono anche composti da quelli che scoprono di essere positive solo una volta che sono state ricoverate per altri motivi, ad esempio dopo un incidente. A tal proposito così si esprime Antonello Giarratano, Presidente della Società Scientifica Italiana degli Anestesisti Rianimatori e Terapisti del Dolore:

Lavoriamo anche per capire le differenze fra i tassi di occupazione nelle diverse regioni. Lo scenario nelle terapie intensive è cambiato. Oggi abbiamo tre tipologie di pazienti con Covid-19.

Le tipologie di chi sta in terapia intensiva

Di certo i ricoverati in terapia intensiva in Italia sono composti dai no vax che arrivano anche con polmoniti molto gravi e che hanno subito bisogno di supporto respiratorio, che arriva in alcuni casi all’ECMO o circolazione. C’è poi abbiamo una seconda categoria simboleggiata da pazienti fragili vaccinati, come chi soffre di insufficienza cardiaca, respiratoria o renale, cirrosi epatica, diabete, ma anche malati oncologici.

Senza tripla vaccinazione, si avrebbe avuto un 80% di mortalità in questo gruppo di pazienti in cui oggi l’infezione da Sars-Cov-2, pur non manifestandosi polmoniti gravi, produce un aggravamento della disfunzione d’organo precedentemente presente e la terapia intensiva supporta la disfunzione dell’organo.

La terza tipologia di chi sta in terapia intensiva è formata da quelli che vanno incontro a problemi gravi di salute come ictus o incidenti, e, nel momento in cui sono ammessi in terapia intensiva, si rilevano che sono positivo per il Covid-19, e comunque devono stare in reparti isolati ad hoc per positivi.

Il tasso d’occupazione delle intensive a livello nazionale

E’ un numero molto basso rispetto allo scorso anno, pari al 5% dei posti disponibili ma:

In alcune regioni, come Calabria e Sardegna, arriva e supera il doppio del valore nazionale e questo può esser collegato anche ai diversi modelli organizzativi regionali. Siamo al lavoro, anche in collaborazione con l’Istituto superiore di Sanità (Iss) per capire se le percentuali più elevate sono correlate alla prevalenza di una tipologia di pazienti più fragili sul territorio regionale e quindi a fattori clinici, o se possa esser collegato a carenze e modelli organizzativi diversi.

Ad esempio alla presenza di pochi posti letto anche in terapia sub intensiva nella regione, cosa che impone di trasferire questi pazienti Covid direttamente in intensiva. Purtroppo, ogni regione adotta modelli organizzativi autonomi rispetto al numero di posti dedicati.

Le criticità

Secondo Giarratano sembra essere rientrato il problema di chi non vuol essere intubato, anche perché i numeri inferiori di pazienti che vi arrivano consentono rapporti più sereni e maggior dialogo con gli operatori sanitari. Non dimentichiamoci, però, che non è calato lo stress degli operatori sanitari così spiegato dagli addetti ai lavori:

Seppure la mole di lavoro non ha più quei ritmi forsennati dello scorso anno, comunque, soprattutto in alcune strutture più grandi che fanno da riferimento per i pazienti Covid-19 a un ampio territorio, lo stress di dover lavorare totalmente bardati, su pazienti a elevata mortalità, aumentando il rischio di contagio per sé stessi e i propri cari, c’è ancora. E ormai si prolunga da tanti, troppi mesi.

La nuova variante “Xe”

Intanto, proprio nelle scorse ore, è stata segnalata una nuova variante del Covid-19, denominata “Xe”, sotto monitoraggio nel Regno Unito. Lo annuncia proprio la Uk Health Security Agency (Ukhsca), riferendo come si tratti di:

Una mutazione ricombinante della Omicron, dei ceppi BA.1 e BA.2. La nuova variante è stata rilevata, hanno fatto sapere gli esperti, in oltre 600 persone ma ad oggi è ancora troppo presto per stabilire se risulti più contagiosa di altre già sequenziate.

Formalmente “Xe” era stata rilevata, per la prima volta, nel Regno Unito il 19 gennaio scorso e, le prime stime delle autorità sanitarie, tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), indicano per questa “mutazione mix” un possibile “vantaggio del tasso di crescita di circa il 10% rispetto a BA.2, ma questo dato richiede un’ulteriore conferma”. Sempre l’Oms ha sottolineato che, fino al momento in cui non verranno segnalate “significative differenze nella trasmissibilità e nelle caratteristiche della malattia” che questa variante scatena, “inclusa la gravità”, la mutazione “Xe” verrà considerata appartenente alla “famiglia” di Omicron.

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